Una lunga striscia montagnosa attraversa orizzontalmente la Papua Nuova Guinea. Una linea di rilievi che spezza a metà la grande isola verde dividendola in una specie di versante nord e versante sud immaginario. In realtà, da quei versanti scendono verso le relative pianure decine di centinaia di fumi e torrenti che scaricano a valle tutto l’acqua che ricevono dalle continue precipitazioni che il cielo a queste latitudini gli riserva. Osservando il paesaggio dall’alto si ha l’impressione che le nuvole lo nascondano sotto di esse e mentre l’aereo guadagna distanze lo sguardo si insinua tra l’immensa foresta solcata da ogni parte dai “serpenti” d’acqua che cercano la via per giungere al mare. Quei fiumi color caffelatte fanno una specie di slalom contorto, come se avessero faticato per trovare la via nelle vaste pianure dell’isola. E’ un film che si ripete in tutte le zone tropicali del mondo, dove le precipitazioni abbondano e la foresta è la grande protagonista.
Nelle Highlands della Papua Niugini si trovano le cime più elevate del Paese ed il Mt. Giluwe oltre ad esserne la seconda montagna è anche il vulcano più alto di tutta l’Oceania. Si trova a sud-ovest di Mount Hagen e precisamente nella Southern Highlands Province, nella zona tribale di Tambul, ai confini con l’Enga Province. Da Mt. Hagen si impiega circa un’ora e mezza di macchina per raggiungere Karikulumindi, base di partenza a piedi per il Gilowe, su strada per buona parte asfaltata mentre l’ultimo tratto che porta verso il piccolo villaggio è di pista sterrata assai brutta; le piogge hanno lasciato dei solchi profondi, sgradevoli nel doverli superare, e all’interno del pulmino si dondola assai vistosamente. La macchina del nostro autista Alan, un minibus giapponese scassatissimo che alla sola vista si rischia il tetano, ci lascia alla fine del villaggio proprio all’imbocco del sentiero che porta al Giluwe (si pronuncia Ghiluuè). Alan, una via di mezzo tra Bob Marley e Dario Argento, sostiene con disinvoltura che il suo Paese “è molto ricco” ed io concordo questo suo entusiasmo solo per non deluderlo.
Ma io ed il mio amico Paolo Lorenzon, dopo essere letteralmente scappati da Mt. Hagen, non siamo di questo parere; o meglio, se questi sono i risultati della loro ricchezza sarebbe da augurarsi la povertà sahariana. A Mt. Hagen come in tutte le altre località della Papua, la sicurezza è un optional che non esiste e il nostro hotel ha più guardie armate che clienti. E’ circondato da un muro alto con il filo spinato che gli corre tutt’intorno nella parte superiore, anche se questo non da alcuna garanzia agli ospiti di essere esenti da furti o altro ancora.
Il clima sociale che si respira è tanto pesante da vedere raramente qualcuno sorridere ed i rapporti con il personale degli alberghi o delle agenzie è sempre improntato sulla diffidenza; si paga comunque e sempre in anticipo.
In queste condizioni pensare di vivere in un paese ricco, come sostiene Alan, lascia a dir poco esterrefatti; crederci è farneticare di niente, è illudersi di avere ciò che non esiste, è credere alla miseria come ad un valore. Purtroppo non lo è, altrimenti sarebbe troppo facile.
Riflessioni a parte, inizia la nostra salita verso il vulcano e il cielo continua ad essere nuvoloso ma per ora non minaccia sfaceli d’acqua. Fine dicembre non è certo il periodo migliore per inoltrarsi nella foresta della Papua, ma nelle Highlands piove talmente spesso che centrare il giorno giusto è solo questione di fortuna; quella che ci deve assistere. In effetti nonostante questo sia l’inizio del periodo più umido per la Papua, e che dura fino a marzo inoltrato, rientreremo su Mt. Hagen prendendo solo qualche goccia d’acqua e praticamente asciutti; un vero miracolo quasi inaspettato.
La Papua Nuova Guinea conta nel suo territorio un numero elevato di vulcani essendo la ragione considerata il punto estremo, ma a mio avviso non il finale, della Linea di Fuoco del Pacifico. Oltre al Giluwe (m.4.368) annovera anche il Mt. Hagen (m.3.778), che porta il nome del capoluogo delle Highlands e rimane la cima più comoda da salire, il Mt. Ne (m.3.635), il Doma Peaks (m.3.570), il Karewa (m.3.568), il Mt. Ialubu (m.3.465), e a seguire ilMt. Yelia, il Crater Mountain, il Balbi nell’isola di Bouganville, il Suaru, il Sisa, Il Karimui, il Bosavi fino al Lamington, vulcano attivo di m.1.680, che si trova nella zona di Popondetta. E poi gli altri ancora delle isole della Papua che sono meno elevati, se si esclude il sopraccitato Balbi di m.2.715, ma che invece, come nel caso di Rabaul, sono tutt’ora attivi e restano una minaccia per le popolazioni circostanti.
La prima esplorazione dell’area e la prima salita “occidentale” al Giluwe venne compiuta dall’australiano Mick Leahy che si addentrò nella regione in compagnia del fratello Dan. L’anno seguente, nel 1935, un altro esploratore Jack Hides, ne rivendica la scoperta, cambiandone addirittura il nome in Minaret Mountains, ma la disputa è durata ben poco; la storia ha dato ragione a Leahy.
Negli anni successivi sino ad oggi il vulcano è rimasto lontano da sguardi indiscreti, nell’indifferenza totale nonostante sia il più alto del continente Oceania. Non si sono registrate negli anni salite di alcuno, anche se credo che qualche escursionista ci sia arrivato, almeno per soddisfare qualche strana curiosità. La gente locale che vive ai piedi del vulcano, e si può circoscrivere in qualche centinaio di persone, conosce attraverso qualche contadino la via per la foresta che conduce al Giluwe.
Un sentiero intricatissimo che si snoda sino a 3.800 metri circa dove c’è l’unico piccolo spiazzo erboso per poter piazzare una tendina; ne prima ne dopo la cosa è possibile. Altro particolare del luogo è che ad una trentina di metri a sinistra (salendo) dell’unica capanna presente, vi è la possibilità di prendere dell’acqua semistagnante per cucinare e, una volta bollita, anche per bere.
Le agenzie di Mt. Hagen nei loro programmi di escursioni propongono tutti il Giluwe ma mai nessuno vi ha mandato realmente qualcuno. La nostra guida, considerato uno “specialista”, non c’era mai stato e su Mt. Hagen non conosceva nessuno che si fosse addentrato nell’area.
Il 28 dicembre 2007 Paolo Lorenzon ed io arriviamo all’abitato diKarikulumindi dalle 14 con una guida e due portatori. Detto in questo modo sia l’una che gli altri potrebbero sembrare dei professionisti ma nei fatti potremmo quasi dire che la loro presenza si è rivelata pressoché inutile; ma i due portatori ci erano comunque stati imposti dall’agenzia. Non conoscevano il sentiero e si sono presentati senza zaino (che ci era stato garantito per il trasporto del materiale) così si sono presi tra le mani le borse di plastica con il cibo, la tenda, il materassino e il sacco a pelo sotto braccio. Prima di incamminarci a piedi si sono radunate intorno a noi alcune persone curiose, tra cui dei bambini ed anche un paio di uomini che saranno quelli che ci guideranno attraverso la foresta e fino all’ampia caldera del vulcano. Alle 14,15 partiamo, seguiti da uno stuolo di persone sorridenti ed eccitate di partecipare ad un fatto inusuale. Dopo qualche centinaio di metri tra i campi, il sentiero si inoltra malamente nella foresta intricata e la guida si fa strada con un macete che sventola da una parte e dall’altra per ripulire al meglio un percorso frequentato di rado e ostruito da foglie giganti, rami e rovi spinosi.
Ben presto le braccia e le gambe scoperte sono segnate da tagli e graffi, che con il sudore e la grande umidità presente nell’aria bruciano ancora di più. Fa un caldo appicicoso non certo piacevole e pioviggina continuamente. Il sentiero sale gradatamente con qualche breve tratto ripido ma si cammina sul fango in mezzo ad una vegetazione fradicia, con tronchi che intralciano il passaggio, disposti di traverso, viscidi e pericolosi e a volte la vegetazione nasconde buche e fossi dove si finisce dentro con il rischio continuo di rompersi qualche osso. I bastoncini sono una grande risorsa di appoggio per un equilibrio sempre precario e dopo quattro ore di salita la foresta si apre, rivelandoci la luce grigiastra delle nuvole che incombono sopra di noi e usciamo dal tunnel di una vegetazione opprimente oramai quasi al buio. Abbiamo coperto 1.000-1.200 metri di dislivello e siamo a circa 3.800-3.900 metri dal livello del mare. Le quote misurate con l’altimetro in condizioni come queste non sono ne veritiere ne considerabili, per cui quelle che riporto sono approssimative e rispecchiano una mia valutazione in rapporto alla cima, unica quotazione certificata.
In questa piccola radura sconnessa vi è una capanna scarna dove all’interno faranno il fuoco e pernotteranno le sette persone che si sono aggregate al nostro seguito. Per piazzare la nostra tendina, Paolo ed io, aiutati dai portatori, tagliamo un po’ d’erbaccia alta che ci serve anche per spianare il terreno nel sottotenda. Nel frattempo sopraggiunge il buio e pure la pioggia che ora cade copiosa e proseguirà sino a domattina. I nostri compagni ci procurano un paio di litri d’acqua bollita che puzzerà di legna bruciata e conterrà della fuliggine, ma per noi va bene. Non fa freddo per niente e in tenda dentro il sacco a pelo leggero si sta bene. Nella capanna si sente un vociare continuo che proseguirà fino a tardi e con i due bambini, che scalzi ci hanno raggiunti portando delle patate, che ogni tanto sghignazzano per le cose che gli altri dicono.
Alle 2 del mattino siamo già svegli (non abbiamo ancora smaltito il fuso orario) e alle 5,30 chiediamo ai nostri accompagnatori di prepararci dell’acqua bollita per riempire le bottiglie vuote di Coca Cola da portarci con noi.
Alle 7 del mattino del 29 dicembre lasciamo il nostro campo e rientriamo nuovamente nella foresta che di li a mezzora supereremo per sbucare al di sopra della vegetazione. In quel punto di netta divisione si trova una fascia di piante con solo il fusto monco, senza rami ne foglie, che si presentano come pali bruciati dall’aspetto sinistro. Stamattina è piovuto sino alle ore 6 ma ora il tempo è bello e il sole si fa vivo sbirciando tra le nuvole. Si risale poi su un terreno che porta alla vecchia caldera costellato da ciuffi d’erba ma su terreno acquitrinoso che continuerà sino a sotto la cima. Raggiunto il bordo della caldera, si costeggia a sinistra superando la prima cima per poi ridiscendere sulla sinistra e arrivare al cospetto del torrione che supporta la vetta. Dentro il vecchio cratere è tutto un acquitrino fangoso e gli scarponi affondano ad ogni passo nel pantano. In questo tratto si incontrano tre torrenti di acqua corrente, buona da bere, che sono da considerare come risorsa, visto il caldo e la sete conseguente che ci perseguita.
Qua e là chiazze d’acqua stagnante e dal nauseabondo color marrone completano il quadro dell’ambiente dove ci stiamo muovendo. Alle 10,20 siamo sotto l’ultimo tratto della nostra ascesa, ripido, insidioso e pericoloso perché ci si arrampica attaccandosi obbligatoriamente all’erba. Ci infiliamo nel canale centrale per uscire nella parte sovrastante sulla sinistra, superando la spalla che porta sotto la cima (ci vorrebbe una corda che non abbiamo!). Si risale poi il canalino (30 metri) fino sotto la cima che si raggiunge sulla sinistra con 10 metri da brivido. Sono le 10,40 quando Paolo ed io siamo in vetta al vulcano più elevato di tutta l’Oceania (m. 4.368) e da quassù osserviamo l’immensità di verde e un mare di nubi ancora una volta minacciose intorno a noi.
Una considerazione va fatta; viste le difficoltà tecniche dell’ultima parte per raggiungere la cima, credo che il Leahy non possa aver realizzato allora la prima salita ma si sia limitato alla cima più bassa. Con questo comunque non gli va tolto, per nessuna ragione, il merito dell’esplorazione al Giluwe, che a quel tempo era da considerare una vera impresa.
Al nostro rientro a Karikulumindi la gente è uscita dalle capanne per accoglierci come degli eroi ed a confermarci che eravamo i primi bianchi a memoria loro ad addentrarci verso il Giluwe e raggiungerne la cima.