Everest, il Sogno Impossibile
A Camberra, in Australia, avevo acquistato nel 2004 un libro con questo titolo ed era il periodo in cui qualsiasi cosa riguardasse la Grande Montagna dovevo averla. Ogni volta mi sembrava di toccare una ferita insanabile ed ogni volta mi chiedevo se io mai sarei salito sul mio “Sogno Perduto”, come al mio ritorno dall’Everest nel 2003 lo avevo definito.
Everest
Sagarmatha
Chomolongma
Sul Tetto del Mondo
Il 2 aprile 2007 lascio casa e il mio lavoro. Daniela e Paolo Vecchi, il mio amico e “fratello” dei giorni normali, mi accompagnano a Milano Malpensa per imbarcarmi sul volo per Doha e Kathmandu. Lasciarli ancora una volta dopo tante partenze mi spezza il cuore perché so che questa è la prova più dura e mi saranno lontani sino al 4 giugno; staccarmi da loro è come strapparmi da una quotidianità che i luoghi lontani mi hanno fatto apprezzare per la ricchezza delle cose e degli affetti che ti propone.
All’aeroporto ritrovo l’amico Fausto De Stefani e Sergio Martini anche loro in partenza per il Nepal; Nives Meroi e Romano Benet saranno, con Sergio e Fabrizio, miei compagni di spedizione anche se ognuno di noi sarà autonomo per ciò che riguarda la salita.
Contrariamente a tutti quelli che si cimentano per un versante della montagna e l’acclimatazione la fanno da quella parte, noi invece compiremo un trekking nel versante nepalese, arrivando sino al Campo Base e rientrando su Lukla e Kathmandu, per poi raggiungere il Tibet via l’orribile Zangmu, e da Tingri raggiungere il lato nord fino al Campo Base Cinese. Questa strategia si rivelerà assai efficace, perché comporta un’acclimatazione assai graduale, evitando stravolgimenti al fisico.
Da Kathmandu, la via verso Zangmu, Nyalam , Tingri direttamente con il mezzo senza la possibilità di muoversi a piedi, è uno scotto che un po’ tutti pagano perché sali in quota velocemente; meglio avere già alle spalle qualche giorno in altura.
Dal 6 aprile sino al 16 dello stesso mese del 2007 la nostra spedizione, con la presenza dell’amico Paolo Paracchini che ci seguirà fino al Campo Base Avanzato nel versante nord, lo dedicheremo al trekking nel Solo Khumbu, la cosiddetta valle dell’Everest, che porta da Lukla al Campo Base del lato sud della montagna. Altra presenza sarà quella di Simone Moro che sta andando a tentare la salita all’Ama Dablan, una delle più belle cime al mondo; da Namche Bazar in poi la montagna ci seguirà per diversi giorni per farsi ammirare sia da sud, da ovest e da nord.
I sentieri di questa vallata li conosco bene per essere oramai la terza volta che li percorro; la prima per l’Island Peak nel 1989, la seconda con Patrick Berhault e Patrick Gabarrou nella spedizione francese del 2003 guidata da Jean Michel Asselin per il cinquantenario della prima salita sull’Everest ed ora. Mentre aggiungo passo dopo passo su quel sentiero, ho ben presente l’ultima volta che sono sceso di corsa, stravolto e sofferente, e che in 29 ore ho percorso tutta la distanza che divide il Campo Base da Lukla. Allora era veramente una corsa verso la vita, dove c’erano i colori (non solo il bianco e il grigio dei 2 mesi precedenti), i fiori, i prati, l’ossigeno nell’aria, le comodità di un letto e la Dany che mi aspettava all’aeroporto di Kathmandu. Provo ancora della pena nei miei confronti per la persona provata che ero, per quella disperazione interiore che era fatta della cima mancata, della solitudine provata e per la morte di Arnaud che non riuscivo ad accettare. Mi ero fatto una promessa con Arnaud ed era di andare a trovare la sua lapide che nel 2004 era stata posata tra Gorak Shep ed il Campo Base dai suoi genitori (ero stato invitato ma non ero potuto andare) e sono orgoglioso di averlo fatto. Quando nella grande pietra che si trova dopo la piana sabbiosa di Gorak Shep, tra diverse lapidi di grandi alpinisti (vi è anche quella di Franco Piana) ho individuato la sua, ho gioito come un bambino e gli ho parlato dicendo “Ti ho trovato caro Arnaud e questo è per ricordarti che non ti abbiamo dimenticato. Non sei solo”. Quanto ero felice di essere lì, altro che groppi alla gola e lacrime e buchi nello stomaco; gli ho pulito il marmo e le lettere del suo nome con la stessa delicatezza che lui, tecnico del suono di una rete televisiva francese che mi “seguiva” durante la spedizione, ci metteva nell’attaccarmi il microfonico sulla giacca la mattina prima di incamminarmi. Le riprese le faceva Vallencant, il figlio del grande Patrick, sciatore estremo dei pendii impossibili, uno dei precursori di quella specialità. Purtroppo dopo la morte di Arnaud e un edema che ha colpito Vallencant, tutto il materiale del film è andato perso, acquisito dall’assicurazione, ma che non verrà mai più utilizzato.
Al Campo Base rivedo la tremenda Ice Fall, un luogo veramente insicuro della salita da questo versante che immette nella Western Cwn, la Valle del Silenzio, dove si arriva sotto i contrafforti del Lothse e del Sagarmatha.
Ma a Namche Bazar, il capoluogo del Khumbu, mi sembra di essere a casa e nel Tameserku Lodge, dalla mamma di Nama Nuru Sherpa,il titolare della Cho Oyu Trekking, l’organizzazione che ci assiste in loco per la nostra salita, sono trattato come un re.
La figlia della signora e sorella di Nima, Pemba Sherpa, perderà la vita nel mese di maggio precipitando dalla parete del Lothse e le verranno riservati funerali di stato per essere stata la più grande alpinista donna del Paese.
Namche è cambiata rispetto anche all’ultima mia visita, ma è sempre piacevole e discreta. Il giorno 8 è la nostra Pasqua che festeggiamo con 2 Colombe portate dell’Italia per colazione e alle 9,30 del mattino un Lama fa un Puja per la nostra spedizione nella parte alta del lodge dove c’è una specie di gompa. Una benedizione in più non fa male ed io le prendo tutte come buon auspicio per la mia meta. In terra himalayana queste cose contano ed invece mi sembrano un po’ delle minchiate se fatte a casa nostra, magari fatte nel capannone dietro un centro commerciale in prossimità dello svincolo tra l’autostrada e la tangenziale. Ma il mondo è bello perché è vario, altrimenti sarebbe una gran noia.
Mi sento molto più rilassato rispetto alla volta scorsa, più determinato, bene fisicamente e molto più tranquillo. Il tempo scorre anche più veloce e non conto i giorni che mancano per il mio ritorno. Comprendo che non mi pesa il fatto di essere qui, e questo è molto importante.
Il 18 aprile lasciamo Kathmandu per Kodari, il posto di confine tra Nepal e Cina. I nostri bagagli vengono trasferiti da una frontiera all’altra dai portatori che attendono in fila il loro momento per guadagnare qualche rupia. Oltre il Ponte dell’Amicizia vi è sulla destra il controllo dei passaporti da parte dei cinesi che sbirciano anche tra le virgole per individuare qualche cosa che non va. Questo è il primo check che viene fatto perché quello più dettagliato con i permessi per il Chomolongma (come viene chiamato in Tibet l’Everest) verrà fatto a Zangmu. Questa nuova città frontaliera, abitata quasi esclusivamente da cinesi, è letteralmente stampata sulla montagna e la strada che l’attraversa sale tra i tornanti che zigzagano tra le costruzioni appoggiate sui ripidi fianchi della valle. Dal confine in poi sino a Lhasa e da Tingri sino al Campo Base Cinese dell’Everest, è tutto un cantiere perché il governo sta facendo costruire l’Autostrada più alta del mondo che collegherà Pechino alle pendici dei maggiori contrafforti himalayani, un progetto che fino ad una decina di anni fa sembrava cosa infattibile.
Il 20 siamo a Tingri che è il luogo da dove si devia dalla strada principale verso sud per il C.B; attraverso un paesaggio che assomiglia molto a quello sudamericano dei vulcani in circa 3 ore arriviamo ai piedi del ghiacciaio con alle spalle l’imponente versante nord dell’Everest. La vista è semplicemente magnifica.
Il campo base si trova oltre la lingua del ghiacciaio di Rongbuk ed è costellato da tendine di una ventina di spedizioni; la più grossa è quella dei cinesi che con 200 alpinisti e con 1000 bombole appresso, vogliono preparare la salita per le Olimpiadi del prossimo anno. Stanno facendo le cose alla grande e all’ingresso del campo vogliono costruire una palazzina che dovrebbe fungere sia da rifugio che da postazione per il controllo dei permessi per la salita per l’ufficiale di collegamento.
Il 21 aprile la carovana della spedizione arriva al Campo Base Cinese a 5.140 metri dove incontriamo la spedizione dei bergamaschi capitanata da Nadia Tiraboschi; vi sono tra gli altri Pierangelo Maurizio, David Borlini e Marco Epis. Per tutto il periodo che resteremo in territorio cinese adotteremo l’ora nepalese perché in Tibet vige l’ora di Pechino, come in tutto il resto del Paese, che sono due ore di meno rispetto alla realtà. In Cina il governo ha imposto una cosa tanto assurda dalle coste dell’est fino ai confini occidentali del Sinkiang e così a Kashgar si cena alle 23,30 che nell’ora solare sarebbero le 19,30. Stranezze cinesi ma fossero tutte queste!
La vita al C.B. è monotona e di attesa. Alle 7,30 arriva il sole che riscalda una temperatura assai rigida. Verso le 10 si alza il vento e così sarà fino al giorno del ritorno. Nel pomeriggio il cielo generalmente bello cambia e spesso butta giù un po’ di neve che va via oltre in fretta. La sera mettersi in tenda (ognuno dispone di una propria sia qui che al Campo Base Avanzato, il CBA) è veramente un gelo ed il sacco a pelo è un incubo finché non ci si scalda. Io ho adottato un mio sistema per rendere questo impatto meno violento ed è di riempire una bottiglia d’acqua bollente e scaldare così una alla volta le diverse zone del corpo: prima i piedi e poi su, per evitare di battere i denti le prime due ore.
La mattina del 22 aprile viene fatto il Puja, che poi verrà ripetuto anche al Campo Base Avanzato prima della salita finale, dove il Lama benedice piccozze, bastoncini, corde, bombole, scarponi e tutto quello che riteniamo possa servire, sotto un tiepido sole; l’Everest in fondo il ghiacciaio sembra osservi tutto, in attesa del nostro arrivo. Sulla cima il vento spazza oltre novemila metri la neve e sembra un cappello con un pennacchio di un galantuomo spagnolo dell’altro secolo.
Il giorno 24 aprile ci spostiamo dal C.B. al Campo Base Intermedio a 5.730 metri di quota e l’operazione del carico degli yak, e prima ancora della pesata dei carichi e della loro ripartizione, è piuttosto laborioso. Vi sono sempre, in questi casi, delle gran discussioni tra i proprietari degli animali, per arrivare ad un accordo che dovrebbe prevedere il peso massimo di 40 kg. per yak, 20 kg. per fianco, per preservare le bestie che qui sono un vero e proprio patrimonio. Alla fine però, siccome gli animali richiesti sono sempre inferiori a quelli disponibili e necessari, vengono caricati di più con un maggiore introito da parte del padrone. Gli accordi li fanno i soldi anche in questo caso e le regole sono solo una base di partenza della trattativa. Il Campo Intermedio viene usato solo durante la prima salita verso il CBA, per fare un’acclimatazione più graduale, ma nei passaggi successivi viene di norma saltato. La via di salita dal C.B. è di tenersi a sinistra del Ghiacciaio Rongbuk e quando si biforca di fronte al Changtse, seguire ancora a sinistra verso il Ghiacciaio Rongbuk Est e spostarsi prima del Campo Intermedio sulla destra. Sopra il campo, oltre il torrente e nell’altro versante della valle, il percorso segue sullo spallone evidente che corre tra le due lingue di ghiaccio costellate da giganteschi penitentes, ed il CBA si trova a 6.340 metri sul lato orientale delle pendici del Changtse. Da quassù si vede di fronte al campo il Colle Nord dove allora Mallory comprese di aver individuato la via migliore per la vetta; aveva risolto il problema del percorso per la conquista dell’Everest e da questo punto la cima sembra lì, vicinissima, pare quasi di toccarla. Questa piramide bianca e grigia che sovrasta ogni cosa racchiude in sé un fascino senza eguali e mi sembra che tutto nasca e finisca qui, come se le altre montagne salite non avessero più senso; potrei cancellarle! In questo momento l’Everest racchiude tutto il mio esistere ed è strano che un luogo della Terra diventi la ragione prioritaria del proprio essere. Ora devo solo continuare a muovermi con determinazione e concentrarmi verso l’obiettivo finale. D’ora in poi mi sposterò verso l’alto con i miei due sherpa, guide alpine d’alta quota, che non hanno mai raggiunto la vetta da questo versante. Si chiamano Dawa e Mingma ed anche per loro questa è una sfida che non può che arricchire il loro curriculum. Dawa, che è il più anziano ed anche il più pacato rispetto al giovane Mingma, non ha mai raggiunto la cima nemmeno dal versante sud ma non ho dubbi riguardo le sue capacità.
La quota oramai si avverte e la mancanza di ossigeno nell’aria provoca i soliti disturbi, dall’insonnia al mal di testa di cui per fortunata non risento minimamente; ma mi da fastidio la tosse e la trachea secca per cui l’unico rimedio sarebbe stare in riva al mare. Questa volta rispetto al 2003, quando mi prende la tosse riesco a controllarla di più, ma di allora ricordo delle notti in tenda (ti prende quando ti stendi) quasi a consumarmi dal continuo tossire, con gli occhi che lacrimavano e la gola in fiamme. Vere e proprie notte da incubo, dove l’arrivo del mattino era l’unico sollievo del vivere.
I giorni a seguire sono di movimento tra i campi, normale attività alpinistica di preparazione per la salita. Il 10 maggio lascio il C.B. per il CBA, detto anche ABC ossia Advanced Base Camp, e le previsioni danno la “finestra” di bel tempo tra il giorno 16 e il 18 maggio; questo è l’ideale perché protrarre l’attesa oltre il 23/25 è veramente stressante e da sfinimento psicologico. Tutto bene allora e questo mi predispone in modo più che positivo e rassicurante nei confronti della salita.
Il giorno 11 maggio Indra, il nostro cuoco, sta male per la seconda volta e vomita sangue oltre a tutto il resto che si ritrova addosso. E’ evidente un principio di edema polmonare ed ha la febbre a 38 e mezzo. Gli viene fatta un’iniezione e stravolto deve per forza scendere, accompagnato da 2 della nostra squadra. Quando parte inizia pure a nevicare e va verso il suo calvario che è pure la sua salvezza.
Il 14 maggio Romano, Nives, Fabrizio, Nadia, Pierangelo, David e Marco partono per il Colle Nord. Loro tenteranno la cima il 17 mentre io e i miei due sherpa il 18; Dawa sostiene che “è quello il giorno giusto” e io penso sia corretto ascoltare innanzitutto loro che con l’Everest ricevono tutta una serie di “segnali” legati alla loro religione a cui loro credono ciecamente. La logica voleva che il giorno ideale fosse il 17 ma Dawa ha risposto sicuro che noi saremmo arrivati in vetta il 18; senza, come era giusto fosse, nessun margine di trattativa. Quando i bergamaschi passano davanti alla mia tendina per salutarmi, Pierangelo è l’ultimo del gruppo e mi lascia una confezione in busta di tortellini. “Mangiali stasera alla faccia nostra che è roba emiliana” mi dice contento. Non lo rivedrò mai più!
La temperatura negli ultimi giorni si è decisamente alzata e al ABC si sta quasi bene; la primavera sta arrivando e penso spesso ai tanti colori che questa stagione da noi in Emilia ci riserva. Che nostalgia per quei prati verdi, di un verde accecante, che circondano casa mia e vanno a perdersi lontano nella pianura e tra le colline dell’Appennino.
Il 15 maggio salgo con Dawa e Mingma al Colle Nord; lasciamo l’ABC alle 9,30 e alle 14,45 siamo a destinazione. Il tempo è stupendo fino alle 11 e dopo si copre e nevischia sino al nostro arrivo al colle. La nostra tendina è aperta e qualcuno vi ha trascorso la notte lasciando incautamente le cerniere dischiuse; cosicché il vento vi ha spinto all’interno la neve. Per prima cosa dopo aver svuotato la neve a malavoglia e con le poche energie che ho, mi accerto che non manchi del materiale tecnico necessario che avevamo depositato per il procedere della salita, perché se mancasse qualcosa dovremmo rinunciare alla salita. Per nostra fortuna è tutto presente; nulla ci è stato portato via.
Mi comunicano di un’avvenuta morte di un giapponese in alto ma non apprendo nient’altro di più preciso. Anche una notizia del genere non mi tocca minimamente e forse quassù ognuno pensa di esserne fuori e che queste cose riguardino solo gli altri. Se non fosse così forse non affronteremmo questi rischi e sicuramente non partiremmo nemmeno da casa.
La tendina che divido con Dawa si trova proprio sopra l’uscita dell’ultima rampa quasi verticale che porta al Colle Nord e protetta dal colle dove è dislocato il vero e proprio campo, che copre tutta la spalla. Alcune tende sono completamente sommerse dalla neve e per il momento sono inagibili. Nonostante la quota mi sento bene e so che d’ora in poi non devo commettere nessun errore. Dovrò controllare ogni mio passo, ogni movimento; calibrare ogni mia azione e ottimizzare ogni mio sforzo. Ci riuscirò? Mi sento lucido e determinato ma questo non significa per forza esserlo realmente!
La mattina del 16 maggio inizia nel peggiore dei modi con la tenda che sbatte violentemente dal vento e con l’interno pieno di neve, che è filtrata da un ramponata data sul telo esterno ed interno dai nostri “visitatori” che ci hanno preceduti e che non si sono curati di lasciarla integra.
Verso le 7 smette il vento e così la situazione si normalizza. Alle 10 partiamo per il Campo 2 con 30 centimetri di neve fresca. Si fatica più del dovuto; la giornata da pessima com’era cominciata si trasforma in ideale, persino calda. Si sale sul ripido spallone ghiacciato e la zona di misto (roccia e ghiaccio) inizia proprio dall’inizio del Campo 2, a 7.510 metri dove noi abbiamo la tenda. In realtà evitiamo di mettere giù la nostra e ne usiamo una dello svizzero Karin Kobler, che stanotte rimarrebbe inutilizzata. La serata è stupenda e sotto di me ho il Pumori che sembra un nano. La vista verso ovest include centinaia di montagne tra cui il Cho Oyu, il Shisa Panama, il Makalu e il gruppo di vette del’Annapurna. I ghiacciai di Rongbuk Ovest e Rongbuk est che scendono ai miei piedi dal Chomolongma vanno a fondersi tra le alte terre del Tibet e lo sguardo arriva sin dove la Terra fa capolino.
Sia il Campo 2 che il Campo 3 che raggiungeremo domani, si sviluppano sulla ripida parete nord e per questo la loro quota varia per ognuno a seconda di dove trova una “piazzola” libera. Nel caso del Campo 2 può variare tra i 7.500 metri ai 7.650 mentre per il Campo 3 da 8.250 e 8.350. Nel caso mio e di Nives e Romano, avendo utilizzato la loro tenda, il Campo 3 è stato fissato a 8.050 metri, cioè al di sotto della loro posizione normale, ed ha avuto un senso per la possibilità di non trovare posto più in alto.
Questa notte sono partiti per la cima Nives Meroi e Romano Benet che raggiungeranno la vetta senza far uso dell’ossigeno. Stessa sorte anche per Nadia Tiraboschi e il giovane David Borlini con uso dell’ossigeno mentre Fabrizio Mannoni si ferma al Terzo Step, Marco Epis rientra sotto il Primo Step e Pierangelo da lassù non farà mai più ritorno.
Ecco una breve dichiarazione che Nadia mi ha rilasciato: “Noi quattro (Nadia, David, Marco e Pierangelo; Fabrizio era con Nives e Romano) abbiamo lasciato le tendine del Campo a 8.300 verso le 3 del 17 maggio, ed eravamo distaccati solo il tempo che ognuno ha per uscire dalla tenda.
Marco è tornato indietro alla fine della salita, dove inizia la cresta per il traverso verso le ore 10,30 locali, perché gli si era sganciato un rampone ed aveva perso una muffola.
Pierangelo lo abbiamo incontrato sopra il Terzo Step e gli abbiamo dato il mio telefono satellitare e la macchina fotografica del David e poi lo abbiamo visto l’ultima volta sulle roccette finali verso le 15,30.
Fabrizio lo abbiamo incontrato sopra il Secondo Step verso le 16,30 e stava salendo. Ci parlava in spagnolo, chiedendoci se c’era “una cueva de hielo” e abbiamo dovuto toglierci anche gli occhiali per farci riconoscere. Solo dopo aver visto anche i nostri scarponi che erano gli unici su tutta la parete mi ha detto: ”Ma tu sei la Nadia!” Io gli ho consigliato di tornare indietro vista l’ora tarda e la posizione dove si trovava, ma non mi sembrava convinto. Non so dirti se poi ha proseguito o iniziato il rientro perché noi siamo scesi rapidi sulle corde del Secondo Step e poi non abbiamo visto più nessuno”.
Alle 10 lasciamo il Campo 2 e la faticosa salita è resa ancora più pesante dalla giornata calda, perché siamo molto vestiti in previsione della notte prossima e non vogliamo spogliarci per non caricare lo zaino. Si arranca dapprima sopra il campo vero e proprio, con qualche tenda sospesa per aria per mancanza di spazi. Si prosegue a destra verso la parete nord in direzione dell’ultimo campo affondando di frequente nella neve morbida su pendio ripido e sconnesso, con frequenti soste. I pochi alpinisti che incrocio mentre scendono somigliano a dei drogati quando è finito l’effetto della cocaina; uno di loro di lingua inglese, credo sia americano ma non ne sono certo, ha perso completamente la vista e viene “guidato” passo dopo passo verso il basso, ma è un delirio. Alle 16, abbastanza provati ma con ancora delle energie di riserva, arrivo con Mingma e Dawa alla tendina di Romano e Nives, a 8.050 metri, che di li a poco rientrano dalla vetta. Sono felici del loro nuovo traguardo e mi sembrano ancora incredibilmente tonici e poco affaticati. Ci lasciano a disposizione la loro tenda e dopo averci raccomandato di riportargliela al ritorno, riprendono a scendere con meta l’ABC.
Le poche ore che ci restano prima della partenza per la vetta le trascorriamo a preparare del the per bere e per riempire i nostri thermos. Dawa e Mingma nonostante le mie raccomandazioni si portano meno di un litro a testa di liquido perché sostengono che non soffrono la sete nemmeno così in alto ma questo non mi rassicura. Ritengo inutile insistere e proprio in questo momento potrebbe creare dei dissidi nocivi per l’obiettivo oramai vicino.
Sembra incredibile, ma delle bombole a disposizione due sono pressoché vuote, ed una terza non risulta completamente piena. Sniffo quel che resta delle due sia per risollevarmi fisicamente (ma sto bene e non ho un filo di mal di testa come al solito) che per prendere uso delle manovre per regolare il flusso dell’ossigeno nelle prossime ore.
Mi restano ora solo 2 bombole; una che ho acquistato nuova all’ABC dai giapponesi e un’altra ricaricata non completamente piena.
Userò quella dei giapponesi per la salita e la seconda di scorta per la discesa.
Questo è il momento cruciale dove tutto il mio esistere converge verso la cima. Non me ne rendo nemmeno conto, perché tento talvolta di farlo ma sono preso dalle cose pratiche; bere, scaldarmi dentro un sacco a pelo leggero tutto rannicchiato, prendere la pasticca di vitamine, i sali minerali, controllare la maschera e gli occhiali, i guanti e tutto il resto che deve funzionare ed essere nel luogo giusto nella giacca e nello zaino. Se realmente fossi in grado in questi momenti di pensare ai miei affetti che non aspettano altro che torni a casa integro e basta, non so in che stato d’animo avrei il coraggio di proseguire e spesso mi sono (egoisticamente) giustificato di arrivare in cima anche per loro. So benissimo che questa è un’emerita cavolata per sentirsi con meno colpe addosso.
L’unica frase che riporto in un biglietto per il mio diario è questa: “Sono al punto di non ritorno; la cima si, un altro fallimento no”. Sicuramente l’ho scritta perché mi sentivo fisicamente a posto e con condizioni meteo buone ma a quelle quote la testa spesso ragiona per i fatti propri e la storia di Michel Parmentier, proprio su questa parete, può essere da esempio.
Alle ore 22 lasciamo la tendina di Nives e Romano a 8.050 metri.
Saliamo subito in diagonale su pendio ripido a destra verso il Campo 3 ufficiale, dove a metà c’è un sherpa morto fuori da una tenda con il volto rivolto a terra, quasi a nascondersi, che nessuno rimuove. Imparerò che oltre i 7.500 metri si convive con la morte e che questo è un luogo di morte. La si vive, la si tocca, ci si convive pensando che possa toccare solo ad altri; ma in fondo se si prendesse anche te non avresti nulla da obiettare; sarebbe la fine di uno sforzo inumano a cui il tuo corpo esausto si oppone, ma non la testa, quella non molla. E’ come un generale che ordina al suo esercito di andare avanti, senza tentennamenti di sorta, perché quelli non lo riguardano. E’ la meta l’unica ragione che esiste; tutto è stato costruito per questo!
Il mio desiderio di negare l’esistenza della morte è altrettanto forte.
L’ascesa è resa faticosa da 30 centimetri di neve fresca e avanzeremo sino al colle in questa situazione.
Alle 00,30 Dawa, Mingma ed io siamo al Campo 3 a quota 8.350. Una mini sosta per bere un goccio di the e poi si riprende, due passi alla volta, e poi spesso mi accascio in ginocchio a riprendere fiato. Sopra il campo la neve fresca è fastidiosa e faticosa e bisogna battere la traccia per avanzare. Sotto il Primo Step sembra che la cresta sia vicina ma ci accorgeremo che ve ne è sempre un’altra sopra.
Alle 2,15 superiamo il First Step a quota 8.480 metri.
A metà del Primo Gradino (First Step) veniamo superati dai 2 tedeschi e dai loro sherpa che sono partiti più in alto di noi e sono quindi più freschi. Li lascio passare perché il loro ritmo è più sostenuto del nostro e in questo modo ci battono la traccia togliendoci un impegno in più. Qui comunque di neve fresca ve ne è molta di meno che in precedenza ma ogni minima cosa comporta una fatica grande.
Usciti dalle rocce dello Step la via si mantiene sotto la cresta sino al Secondo Step ed è in questo tratto che al ritorno dalla cima, tra la nebbia, mi accorgerò della presenza di un alpinista, presumibilmente un indiano, che aveva preso una corda sbagliata che finiva nel nulla ed era lì su un terrazzino fermo, bloccato, quasi in attesa di qualcuno; braccato dalla montagna e dall’impotenza fisica e mentale. Ho avuto l’impressione che se con Dawa non lo avessimo ricuperato e riportato sulla via di salita, a lui ne importasse niente e sarebbe rimasto lì. Tra noi ne è scaturito solo qualche sguardo e qualche sillaba bofonchiata ma niente di più; nessuna frase e nessun ringraziamento.
Alle 4,45 siamo ai piedi del Second Step a quota 8.600 metri.
Oramai sta per albeggiare e la giornata si presenta bellissima ma gelida, anche se questo è il momento più freddo. Questo pezzo con il salto di roccia del secondo step è in assoluto il più impegnativo, il più delicato ed il più rischioso nonostante la presenza di 2 scale. Quella vecchia e in disuso è quella a sinistra mentre l’altra è più recente e meglio fissata. Questo tratto verticale è stato superato in libera solamente dall’americano Conrad Anker nel 1999, durante la spedizione sponsorizzata dalla BBC, e nella quale venne ritrovato il corpo di George Mallory a quota 8.170 metri, sotto il Primo Gradino.
Il tutto si concentra su un tratto della montagna assai esposto e dall’aspetto precario. Sia l’arrivo alla scala dove bisogna passare su una roccia che spancia verso il basso e cosparsa di verglass ed anche l’uscita dalla scala in alto verso destra ha caratteristiche molto simili e poco rassicuranti. In più, specie per l’uscita, ci si trova di fronte 7-8 corde mezze sbrindellate e penzolanti; da brivido, se non fosse per la poca lucidità. Superato questo tratto ci si imbatte finalmente sulla cresta che porta al Terzo Gradino e la cima sembra tanto vicina. Questo tratto di sentiero vero e proprio è persino rilassante e confortante, e ci riposiamo un po’ così faccio anche il punto dei miei piedi che 2/3 ore fa li sentivo freddi. Ho sensibilità ma penso di aver stretto troppo la scarpetta interna e questo mi ha ostacolato la circolazione; alla fine 7 dita riporteranno dei principi di congelamento, dovuti anche alla mancanza dell’ossigeno. Provo a scattare qualche immagine ma la fotocamera che ho a portata di mano non risponde; ma non me ne frega niente delle immagini (che poi rimpiangerò) e nonostante una visione a 360 gradi con il cielo sereno, lascio perdere e mi rialzo e proseguo verso il Terzo Gradino.
La luce pura del mattino avvolge l’universo di una pace assoluta, irreale, soffocata. Non vi è nemmeno sentore di morte eppure si aggira intorno a noi.
Alle 6,29 siamo al Terzo Step a quota 8.690 metri.
Il Terzo Gradino è sin troppo facile da superare e la temperatura è oramai gradevole. Siamo in assenza totale di vento e con un cielo terso. Dawa aveva ragione!
Metto un piede davanti l’altro ed ogni due passi mi fermo, ansimo, vorrei bere e respirare ossigeno, vorrei essere al mare, vorrei essere in cima, vorrei…vorrei…ma se fino a ieri ero convinto di arrivare lassù, oramai ci sono e niente mi potrebbe più fermare se non la morte.
Sono in orario, addirittura in anticipo e questo è confortante. Per qualsiasi ritardo avrei del margine che spero e farò di tutto per non utilizzare. Ora devo solo pensare a salire.
Alle 7,25 abbiamo superato il Terzo Step a quota 8.720 metri
Appena sopra l’ultimo Gradino si ha di fronte solo il grande cono sommitale di neve che non è la cima ma immette in alto a destra al traverso che conduce verso il centro della parete nord.
A 8.700 metri, Minga deposita sulla neve l’altra mia bombola di ossigeno perché la possa ricuperare ed utilizzare durante la discesa. La troverò vuota completamente!!
Alle 9,25 traversata verso il diedro finale 8.780 metri
Il traverso che porta sotto la direttrice per la vetta mette a nudo l’immensità della parete nord e penso al francese Marco Siffredi che si è lanciato giù di qui senza mai più giungere in fondo. Mi sembra di percorrerla tutta nonostante siano una trentina di metri, ma quassù sono tanti.
Alle 10,10 uscita diedro finale e arrivo in cresta a quota 8.8.25
Si sale poi un diedro e successivamente delle roccette che immettono su una placca di roccia che ci sposta a sinistra e termina in uscita nell’anticima. Sulla destra, ad una trentina di metri da noi che riprendiamo fiato, ecco la cima colorata dalle bandierine buddiste. Un vento leggero sposta delle nuvole e la nascondono tra un velo di nebbia ma le condizioni meteorologiche sono ottimali.
Alle 10,24 arrivo in vetta a 8.850 metri
Un’elegante cresta di neve conduce rapidamente alla vetta della montagna più alta del mondo, sul tetto dell’Asia e della Terra
Ce l’ho fatta.
E’ finito un incubo!
Le mie ossessioni hanno il loro epilogo quassù!
Ora non riesco a gioire; ci sarà il tempo anche per questo. Mi guardo intorno senza entusiasmo, con lo stupore misurato di un pugile che sa di aver vinto ma che ha subito troppi colpi per poter essere felice: ora.
Cristo, sono in cima all’Everest eppure tutto mi sembra così normale. Molte situazione sono straordinarie prima e dopo; non durante, e questa è una di quelle.
Devo pensare al ritorno e questo mi preoccupa!
Sono quassù sopra le nuvole a combattere con la vita,
ma niente mipotrà togliere questa visione dalla mente
Mi sento assai provato per la sete che mi logora la gola e il fisico e per la mia bombola di ossigeno è completamente vuota. Tengo la maschera sul viso perché mi sembra che l’aria diretta sia molto più secca mentre così un minimo di umidità viene mantenuta al suo interno. Ho la lingua e la trachea in fiamme; ho la sensazione che si spezzino da un momento all’altro. Anche buttando giù del liquido non riesco a bagnarle, ma sento un dolore ustionante e basta. In fondo se sono quassù questo lo posso relegare come un dettaglio fastidioso, insignificante, doloroso; ma sempre un dettaglio.
Mi sento come un combattente che ha vinto una battaglia ma che si ritrova pieno di ferite, esausto; debbo ricomporre il mio orgoglio di uomo, tenere dritta la schiena e procedere.
Sto scendendo piano, sgonfiato….
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La descrizione completa della salita sull’Everest è contenuta nel Volume
7 Gioielli per 7 Continenti