A quattro ore d’auto e 120 km. di distanza dalla capitale Tehran, oltre i monti dell’Alborz, si erge a nord-est il cono vulcanico del Damavand, maestoso come il suo nome. E’ isolato rispetto a tutto e tutti gli altri rilievi che al suo confronto appaiono come dei nani impauriti. Dalla cima più elevata dell’Iran lo sguardo spazia dal Mar Caspio fino a sud nel deserto oltre Tehran e la calura che assale ogni creatura 3000 metri più in basso, lassù tra le nevi eterne è solo un ricordo.
Renzo Mondadori ed io arriviamo a Tehran il mattino del 5 agosto 2007 già pronti per essere accompagnati da Asadi sulla via di Nandal, villaggio alla base del versante nord del Damavand. Alle 10 lasciamo il Tehran Grand Hotel, che sarà la nostra base nella capitale per i prossimi giorni, e attraversiamo la città, con un traffico caotico e nervoso, diretti verso est, con un cielo grigio dallo smog fino oltre la periferia e nuvoloso sulle montagne circostanti tanto che nei giorni scorsi è nevicato non poco sul “nostro” vulcano.
L’edilizia nella capitale è in grande fermento e costruiscono interi nuovi quartieri, anche moderni, sembra senza interruzione. La popolazione in crescita di questa megalopoli asiatica, che oramai conta 15 milioni di abitanti, sembra inarrestabile. Il mito della città come fonte di opportunità ha presa in ogni angolo del mondo; l’Iran non è da meno. Il governo sta cercando di piantare alberi in ogni dove, specialmente nelle vaste periferie che si confrontano con aree aride, per strapparle al deserto e renderle più a misura d’uomo. L’acqua se manca in superficie, abbonda nelle falde del sottosuolo, alimentate dalle montagne vicine. Può essere che anche un normale ristorante come i giardini dei vecchi palazzi dell’aristocrazia pre-rivoluzione, sia tutto un giogo di cascate, corsi d’acqua, canali, piscine e vasche per il semplice piacere della vista dell’acqua, che di per sé da un grande senso di frescura. Il caldo umido incombe e in Iran non ci si può svestire; la legge lo vieta.
Un’ora dopo Polour cambiamo macchina e con un 4×4 lasciamo la strada statale per salire verso sinistra su una strada sterrata polverosa che dopo tre ore ci scarica al villaggio a 2.400 metri di Nandal. Ceniamo e trascorriamo la notte da Alì, un anziano che è anche la guida più datata del Damavand e che incredibilmente mai è salito in vetta; a questo punto e vista l’età penso che il suo rimanga solo un sogno irrealizzabile. La mattina alle 9 il fuoristrada ci porta dalla parte opposta della vallata che ci separa dal vulcano e dopo un’ora stiamo già salendo verso il primo rifugio a 3.800 metri. In questo tratto i muli ci portano su materiali e viveri, così Renzo ed io possiamo goderci l’ascesa in chiacchiere e fotografie, accompagnati da un sole caldo e da una coppia di giovani inglesi. Il 7 agosto saliamo al secondo rifugio, 1000 metri più in alto, e nel pomeriggio il cielo si copre; in alto nevica. Le condizioni della struttura che ci accoglie non sono straordinarie ma per una notte si può fare; gli inglesi sostano un giorno per acclimatarsi meglio e così sono loro che dovranno accettare il tavolaccio, lo sporco e la polvere.
Generalmente la salita si intraprende dal versante sud, più facile e per questo più trafficato, ma da nord è esteticamente più spettacolare e un po’ più complicato, senza ovviamente presentare difficoltà tecniche di alcun genere.
Vi è un passaggio di roccia delicato 100 metri sopra l’ultimo rifugio e poi si sale bene sul ripido fino alla cima dove il giorno 8 agosto 2007 Renzo ed io incontriamo Reza, un’iraniano con una da sci color giallo che da circa un mese vive con la sua tendina gialla all’interno del cratere tutto solo e per un voto fatto ad Allah dovrà rimanerci ancora tre settimane. Nella prima parte del mattino il tempo è stato buono per coprirsi poi più tardi verso la vetta. Tra la puzza di zolfo e la nuvolaglia, dopo le foto di rito lasciamo Reza in grande solitudine e che rientra triste nella caldera per rifugiarsi in tenda mentre del nevischio fastidioso gira per l’aria. Renzo appare affaticato e gli propongo di scendere in fretta per raggiungere Teheran stanotte stessa. E’ perplesso ma vedo che scende con determinazione e alle 19 siamo al Big Rock dove un quarto d’ora dopo un camioncino senza fari e col buio ci accompagnerà fino alla strada statale; questa è stata la parte più rischiosa della spedizione ma non è finita lì. Per arrivare a Tehran altro autista da brivido ed altre quattro ore svegli con l’incubo di finire spiaccicati contro qualcuno o fuoristrada, ma alle tre del mattino del 9 agosto arriviamo in Hotel stanchi ma vivi. Ora inizia la vacanza in Iran!!