Mario intervistato da Roberto Mantovani*

(*giornalista, scrittore, storico dell’alpinismo)

(Intervista realizzata nel dicembre 2006)

Mario, perché hai iniziato a viaggiare?

Fin da piccolo ho sempre avuto una passione esagerata, maniacale, per un solo libro: l’atlante. Lo consumavo a forza di sfogliarlo e luoghi come Cuzco o Kathmandu mi sembravano lontani e irraggiungibili come la luna; allo stesso tempo mi erano familiari tanto me li rigiravo nei miei sogni. Ancora oggi l’atlante o una qualsiasi carta geografica hanno il potere magico di “trasferire” la mia mente ovunque.

La prima grande emozione in viaggio

Quando per la prima volta ho preso l’aereo (per Amman) e sorvolavo il mondo. L’Italia del Sud e il Mediterraneo li superavo sotto di me in un attimo e abituato a muovermi a piedi o in macchina dove osservavo in ogni volto un’espressione diversa, mi sembrava di essere entrato in un’altra dimensione, in cui i luoghi irraggiungibili entravano nella mia sfera di accesso.Ma ho pianto dall’emozione una mattina del ‘78 lungo la Panamericana in Perù quando, arrivato da poche ore dall’Europa, ero già in viaggio su un bus locale. Una donna mi mise in braccio il suo bimbo infagottato per sistemare il bagaglio e una gallina con le zampe legate; nel frattempo gli altoparlanti inondarono di musica andina la corriera. Per mesi avevo sognato e immaginato questo mondo ascoltando al buio per ore nella notte la musica degli Inti Illimani e gruppi similari; ora quel mondo fantastico era realtà. Ci vivevo dentro con la sua gente, con l’Oceano Pacifico di fronte a me e la Cordigliera andina all’orizzonte. E la meta prossima era Nazca per incontrare Maria Reiche, la “Donna delle Linee”. Essere nato in un paese di montagna da gente umile mi aveva precluso mentalmente ogni meta al di fuori dal recinto comunale; da quel momento non sarebbe stato più così. Avevo abbattuto quel muro immaginario che avevo intorno ed ero anch’io parte del mondo.

Come si diventa viaggiatori?

Credo, ma è un mio pensiero, che uno lo è per natura; ce l’ha nel sangue. Molti che si definiscono tali sono dei semplici turisti (spesso lo sono anch’io) e altri lo sono per forza perché fa chic o per mettersi in vetrina. Mi piace il ritmo del viaggio; cambiare luogo, situazioni, persone, clima, hotel, compagni di viaggio; e pensare alla meta successiva. Il motto “Partire è un po’ morire” non ha mai fatto per me perché partire mi ha sempre caricato di entusiasmo e adrenalina. Ho la capacità di sentirmi a mio agio in qualsiasi città e luogo del mondo; Siberia o Sahara, Catania o Waikiki. Talvolta mi sembra di essere dentro un documentario tanto non mi sono ancora pienamente abituato all’idea che invece ne sono protagonista. In altre situazioni è come se fossi un passeggero che osserva dal finestrino ciò che accade fuori dai miei occhi ed anche se cammino e vivo il freddo pungente o la fatica, mi pare che tutto accada al di fuori di me. Nelle situazioni più difficili e pesanti penso che queste hanno una durata tanto breve nel tempo che stringere i denti ti avvicina di più al suo termine per cui mi proietto già al dopo; nel mondo soft dove viviamo.Il viaggio poi è un gioco tanto elementare che si ripete in ogni angolo della Terra; mangiare, dormire e spostarsi. Trovare un hotel, il cibo e un mezzo, condito da un minimo di organizzazione. Oggi tra internet, le guide scritte, le agenzie, la gente locale oramai scavata al turismo, alle spedizioni, al trekking e altro ancora, per viaggiare il meccanismo è ancora più semplice, talvolta sin troppo, e da inventare c’è rimasto ben poco. Anzi, direi quasi niente; ma io ho l’incredibile capacità di sentirmi turista anche nella mia città.

La tua passione per la fotografia

E’ cominciata dal mio primo viaggio e acquistai la mia prima fotocamera la sera che precedeva la partenza. Il risultato fu un disastro ma tornai con la convinzione che “quella cosa” mi piaceva da morire. La macchina fotografica racchiudeva in sé il mondo meraviglioso dell’immagine, ed altro non è che una parte della tua vita e di ciò che hai vissuto, selezionato tra ciò che hai ritenuto di non poter dimenticare o di voler, almeno allora, assolutamente ricordare. Un fotogramma talvolta è una vita intera. Il mio viaggiare è semplicemente legato alla fotografia e non posso immaginare di partire senza una fotocamera. Vi è tutta una ritualità nel preparare il corredo e fotografare poi diviene un completamento del viaggio.

Non ho mai considerato di diventare un grande fotografo perché il mio è un puro piacere. Addirittura con le vecchie fotocamere non digitali c’era la soddisfazione nel sentire lo scatto dell’otturatore, cambiare la pellicola, rientrare in Italia con il sacchetto dei rotoli che erano un mistero tremendo fino al loro sviluppo. Ma la fotografia mi ha insegnato ha guardare il mondo, ad inquadrare le cose diversamente, con un taglio geometrico, studiandone le situazioni, aspettando la luce giusta e godendo dei colori del mondo. Da qualche anno ho integrato a tutto questo anche le riprese con la telecamera e con il mio amico Ugo Antonelli ho realizzato alcuni documentari. Stiamo lavorando su diverso materiale e tra agosto 2005 e ottobre 2006 ho fatto delle riprese sulle Alpi, Dolomiti, Caucaso, Tanzania, Etiopia, Libia, Argentina, Cile, Alaska, Grecia, Costa Rica, Indonesia e Irian Jaya. A questo inoltre debbo aggiungere un film che sto terminando, con Ugo Antonelli e con il tuo contributo di giornalista, su un grande alpinista. Talvolta adesso mi riesce difficile scegliere tra fotografare o filmare ma la cosa non mi preoccupa.

Parliamo di alpinismo e montagna

Non sono ne un alpinista ne un uomo di montagna per il semplice fatto che ho salito vulcani e montagne in ogni angolo del mondo perché sono stato in ogni continente. E’ un dato di fatto che non mi fermo in fondo ad una valle ma sia curioso di vedere cosa c’è intorno e sopra. Dove c’è solo il mare faccio delle immersioni e recentemente sono stato in Indonesia dove a questo ho abbinato pure delle salite ai vulcani. Ma i vulcani sono un’altra mia passione per cui li considero un mondo a sé. Logico però che alcune cime le ho salite come unico obiettivo per inserirle all’interno di un progetto.

Però il tuo curriculum è pieno di cime

E non solo. Non è semplice inserire altre cose importanti, e sono molte, perché diventano difficilmente collocabili. Ritengo, per farti un esempio, che la spedizione del 2005 in Antartide, partendo con una rompighiaccio da Hobart (Tasmania) per raggiungere il Mare di Ross sia per me più importante di qualche vetta extraeuropea. Trovarmi ai piedi del vulcano Erebus, salito in primis da Shackleton, ed entrare nella sua capanna dove vi erano ancora le sue attrezzature, i suoi vestiti, il suo tavolo, i suoi diari, è stato come immergersi nella storia sia dell’uomo che di una delle vicende epiche di quel continente. O camminare sull’iceberg B15, immenso come una regione italiana, un’isola partorita da un ghiacciaio. O stare dentro colonie di pinguini composte da 2-300.000 animali e osservarli nel loro habitat. Quello si che è un nuovo mondo, altro che la cima dell’Elbrus (per farti un esempio), che diventano spesso e solo delle pratiche da sbrigare.

Cosa pensi del mondo dell’alpinismo e degli alpinisti?

E’ un mondo che conosco poco e non mi appartiene. E poi alcuni alpinisti che ho conosciuto mi sono sembrati molto tristi, con pochi argomenti se si escludono le montagne di casa. Se penso poi alla sede del CAI dove ero iscritto quando iniziai ad arrampicare, la ricordo come un luogo serio, cupo, senza clamori. Frequentato per la maggior parte da gente anziana, mi dava l’impressione di essere all’interno di un centro culturale più che un club di gente dedita allo sport. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua e l’idea, comune, di piantare la bandierina in vetta mi faceva accapponar la pelle. Per un periodo, una decina d’anni, ho trascorso quasi tutti i week-end sulle Alpi o in Dolomiti ma alternavo l’arrampicata al trekking, alle escursioni e alle vie ferrate, perché l’importante era essere in ambiente. Mi sobbarcavo uno zaino pesante, con la tenda, il fornelletto e i viveri, in modo da essere autonomo; mi dava un grande senso di libertà. Oggi no, non ne ho più voglia. Ogni cosa a suo tempo e per questo il mio tempo è scaduto. Il mondo dell’alpinismo, come dicevo, lo conosco poco e se mi ha ispirato è anche perché ho conosciuto dei grandi alpinisti. Sicuramente personaggi come Tensing Norgay, Kurt Diemberger, Patrick Berhault, ed altri ancora, mi hanno fatto partecipe di un mondo che credevo invulnerabile, inaccessibile; non mio. Le loro imprese le leggevo sui libri e quando mi sono trovato a percorrere i loro sentieri, le loro vie e le loro vette ho compreso che ero inconsapevolmente dall’altra parte.

Cosa sognavi di fare da grande?

Il cantante rock. Debbo dire che di quel sogno mi è rimasta la musica che mi ha accompagnato ovunque, senza lasciarmi mai. Posso aggiungere che la mia vita è segnata dalle canzoni; ogni periodo, luogo o stagione, amicizia o amore lo potrei identificare con una o più canzoni; o con una voce, o un genere musicale. Per farti un esempio, quando ascolto Franco Battiato con “La cura” o Giuni Russo con “Morirò d’amore” e il resto del suo CD mi sento invadere, come una dolce nostalgia, dalla mia avventura sull’Everest del 2003. Mi ritornano i luoghi che i miei occhi hanno impresso, ma ancora di più le angosce, la solitudine e l’infinita distanza dal resto del mondo che ho costantemente avvertito.

Cosa ti ha avvicinato alla montagna?

La mia amicizia con Giannico Rossi. Allora, e parlo della metà degli anni ‘70, abitavo ad Aosta e lui arrampicava già forte quando cominciammo a frequentare le palestre di roccia in Valle. Ben presto Giannico cominciò a puntare sulle vie classiche delle Alpi, ma collezionammo una serie infinita di debacle. Non riuscivamo mai a completare una via che fosse una, e davamo la colpa alle condizioni del tempo anche se faceva bello; ma semplicemente ci incrodavamo e talvolta sbagliavamo la via per spensierata incapacità. Erano sempre guai. Dopo 3-4 tiri eravamo già in panne, talvolta per mancanza di lucidità per le poche ore dormite la notte prima. Il nostro libro mitico era “I Giorni Grandi” di Bonatti tanto che ad un certo punto pensammo di mettere giù uno scritto pure noi su “I Giorni Piccoli” nostri. Riuscivamo a combinare dei casini anche durante le continue ritirate, lungo le corde doppie, e quando arrivavamo alla base della via Giannico era solito dire in un misto di sconsolata soddisfazione “Anche stavolta la portiamo a casa”! Quando lasciai la Valle mi resi conto che quel periodo era stato veramente importante nel mio modo di rapportarmi con la mia vita in futuro. Avevo imparato ad apprezzare la natura, gli spazi, la fatica fisica per raggiungere un obiettivo e mi rendevo conto di non poterne più fare a meno. Da allora non c’era più Giannico a tirarmi fuori dagli impicci e me la sarei dovuto sbrigare da solo. Ne presi semplicemente atto.

Il tuo curriculum è fatto di tante salite extra-europee; qual è stata la prima?

Ho salito il Cristobal Colon, la cima più elevata della Colombia, nel 1986 e la mia partenza per il Sud-America fu del tutto casuale, come accompagnatore. In realtà sarei dovuto partire per il deserto ma ci fu un cambio di programma imprevisto. Da allora ai viaggi ho alternato trekking, salite e traversate. Ma senza mai concentrarmi su un settore particolare e questo non mi ha permesso di specializzarmi. Non sentirmi legato ad un genere preciso mi ha reso più libero, senza monotonie e ripetizioni che mal sopporto; troverei noioso persino partire sempre per il deserto o per vulcani o mari tropicali. Alternare ma specialmente seguire le mie voglie momentanee, mi mantiene vivo l’entusiasmo. Mi ritengo fortunato perché ho avuto ed ho tuttora la possibilità di andare dove voglio ed è una concessione che non tutti hanno e che da piccolo non avrei mai potuto nemmeno immaginare. Si, mi ritengo una persona davvero fortunata.

Ma tu hai salito in meno di 10 mesi 4 Seven Summits; un record da grande alpinista che sembra non ti sfiori nemmeno!

Le 4 salite sono nate per caso partendo proprio dalla prima all’Elbrus; era l’unica vacanza di una settimana che mi potevo concedere allora, mentre al Kilimanjaro ci sono andato per la salita all’Oldoynio Lengai, un vulcano veramente speciale. L’Aconcagua e il Mckinley hanno storie similari mentre il Carstensz è stata la logica conseguenza della 4 già salite. Ma nel frattempo ho fatto dell’altro.

Allora completiamo la serie con la salita più recente, il Carstensz, terza salita italiana e 5 Seven Summits in 15 mesi

Come già ti ho detto il Carstensz non è altro che la continuità delle altre 4 già salite, più il Mt. Vinson già salito nel 2000. E così sono 6 su 7; manca l’ultima.

Sei il primo europeo a compiere una performance del genere: come sono state le tue salite su queste montagne?

L’Elbrus, la cima più alta d’Europa e situata nel Caucaso, è stata rapida e semplice. Kilimanjaro e Aconcagua si sono rivelati dei trekking d’alta quota mentre un discorso completamente diverso è stato per il Mckinley in Alaska. La salita che ho compiuto con i miei compagni è stata veramente dura per le condizioni del tempo, il freddo, il vento e la fatica che ci hanno accompagnato durante tutta la nostra permanenza sulla montagna. Decisamente molto meno impegnativa è stata la salita del Mt. Vinson in Antartide ma questo dipende molto dalle condizioni che si incontrano. Il Carstensz è una situazione geografica unica e complessa. La via di roccia è bella e divertente, non fosse per la pioggia. Dalla vallata parallela al campo base sale ripida e diretta verso la cima. La grande incognita è raggiungere la base della montagna e i fulmini minacciosi che bersagliano la cresta. Ogni alpinista in quella situazione e con la ferraglia che si porta addosso può essere colpito da una scarica mortale, senza scampo.

Quale è stata l’esperienza che ti ha segnato di più?

Certamente la spedizione sull’Everest nel 2003. Nella sua globalità. All’interno di essa si concentra tutto ciò che una persona può provare. Dal sogno che si avvera (fino a poco tempo prima immaginavo che questa montagna appartenesse esclusivamente ai Messner), alla solitudine, alla sofferenza, alle emozioni, alle paure e alle angosce che questa mi ha riservato. Ad oggi non cancellerei nulla di quella esperienza lunga 70 giorni, una vita, eppure nonostante tutto e il non aver raggiunto la vetta quel pezzo di vita mi appartiene; quasi gelosamente.

Un’emozione dall’Everest 2003 che puoi raccontarci

La tenerezza che avevano nei miei confronti Patrick Berhault e Patrick Gabarrou.
Quest’ultimo tutte le sere mi veniva a dare la buonanotte come un buon padre; ed io spesso lo consideravo tale.
Eravamo vicini di tenda al campo base e ci accomunava una simpatia reciproca.
Patrick Berhault era un ragazzo straordinario, di una semplicità disarmante nonostante fosse allora uno dei migliori e completi alpinisti al mondo. E mi piacevano le espressioni tenere del suo viso.
Spesso le sue risposte sembravano seriosamente banali ma rispettavano talmente la realtà da rimanerne senza parole.
Alla mia domanda, riportata nel film “Everest Sogno Perduto”, di cosa ne pensasse della salita alla cima mi rispose:” Lassù, con il vento forte che spira adesso, non si può andare.
Aspettiamo; se si può fare, bene, sennò faremo qualcos’altro”.

A proposito di personaggi, tu hai conosciuto Tensing Norgay

Ho avuto la gioia di trascorrere un giorno a Delhi con lui pochi mesi prima della sua morte. Era affaticato e già segnato dalla malattia. Ad un certo punto nell’aiutarlo ad alzarsi da una sedia lo presi per mano e la cosa che mi colpì fu che quella mano scavata avesse bisogno della mia. Non gliela lasciai non ricordo per quanto tempo e avrei voluto che quella stretta non finisse mai. C’era una benevolenza nei miei confronti quando mi guardava, o forse la immaginavo solo io, ma quei solchi sul suo viso io li conoscevo già tutti. Li riconoscevo scavati da quel vento gelido che sui passi himalayani si insinua nella neve gelata e ne forma dei canali, delle cavità che assomigliano a canyon. Fino ad allora non avevo ancora salito una cima extra-europea ma qualche mese dopo è iniziato un percorso non ancora terminato. E’ come se mi avesse reso partecipe delle grandi montagne. 20 giorni dopo quell’incontro, ho conosciuto Kurt Diemberger a Tashigang (con Julie Tullis), altro personaggio semplicemente straordinario. 20 anni dopo Kurt riesce ad emozionarmi ancora con le sue conferenze nonostante le abbia ascoltate decine di volte. Ho per lui il rispetto di un padre ma lo considero un amico a cui voglio un bene speciale.

Le tue salite non hanno risalto

Direi più che altro che non lo meritano. Non rincorro la targa e nemmeno, a questo punto, lo sponsor. Fino a che ne avevo voglia ho collaborato con alcune aziende sportive ma adesso basta. Avrei voglia nel tempo libero di leggere e scrivere, ma le mie giornate sono talmente piene che rinuncio al pensiero.

Un tuo progetto futuro?

Mi piacerebbe scrivere un libro sui vini del mondo, o meglio, di alcuni vini del mondo. Se pensi che non conoscevo l’universo del bere-bene fino a sei anni fa e che il vino ho cominciato ad apprezzarlo in Cile, ti lascio immaginare quanto mi rimane ancora da scoprire.